Pubblichiamo questo “contributo” di Roberto Feletto sul 5G.
Un documento interessante e chiarificatore che non lascia, volenti o nolenti, dubbi sulla pericolosità di questa nuova tecnologia.
Andrebbe letto da tutti.
Dovrebbe essere fonte di meditazione soprattutto per coloro che hanno il compito di tutelare la salute dei cittadini.
Da tutti questi e anche da chi ci rappresenta a livello locale, dovremmo pretendere azioni concrete a favore della nostra salute e la richiesta dell’applicazione del principio di “PRECAUZIONE”.
Ma così non è.
Buona lettura.
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Dopo lo sconcertante intervento ascoltato nell’ultimo consiglio comunale, e
scegliendo di intervenire a mente fredda, ritengo utile a tutti riportare alcune
osservazioni come contributo documentato e documentabile, oggettivo e
disinteressato (*) sul tema dell’inquinamento elettromagnetico in generale e del 5G in
particolare.
(*) atteggiamento e motivazione che deve SEMPRE accompagnarsi alla domanda
fondamentale su ogni attività umana:
Molte persone ormai hanno sentito parlare del cosiddetto “5G” e pensano che sia una semplice evoluzione delle tecnologie precedenti: il 2G, il 3G, il 4G, etc., e che perciò debba essere innocuo. In realtà, si tratta di una tecnologia del tutto diversa, che avrà un impatto notevole per varie ragioni. E non è neppure vero che un telefonino 3G (UMTS) sia meno pericoloso di un 2G (GSM), come molti credono: infatti, nonostante la potenza emessa dal 3G sia minore, vi sono già evidenze epidemiologiche e di laboratorio che mostrano come il danno al DNA e il rischio di tumore al cervello con l’UMTS sia maggiore. Gli studi scientifici preliminari disponibili in letteratura hanno mostrato che le onde millimetriche aumentano la temperatura della pelle, alterano l’espressione genica, promuovono la proliferazione cellulare e la sintesi di proteine legate allo stress ossidativo ed ai processi infiammatori e metabolici (condizioni notoriamente implicate nell’insorgenza del cancro, ed in diverse malattie acute e croniche), possono generare danni oculari, nonché influenzare le dinamiche neuromuscolari. Il 5G, una volta a regime, funzionerà prevalentemente con delle antenne phased array (cioè “schiera in fase”) a 24-26 GHz, ovvero con frequenze altissime. Un singolo array potrà contenere qualcosa come 64 antenne che collaborano insieme per costituire un’emissione direzionale, cioè un potente fascio di radiazioni diretto verso l’utente. Le antenne 5G hanno, in alto, elementi emittenti a 3,5-3,6 GHz e, sotto, l’array appena descritto che terrà il collegamento con l’“Internet delle cose”: dal frigorifero che dirà al lattaio di portare il latte perché è finito e altre applicazioni del genere, fino alle auto che si guidano da sole. Il segnale 5G sarà forte e ubiquo, perché non deve succedere che un’automobile a 80 o 100 km/h non abbia informazioni su dove andare. Questo significa coprire tutta l’area cittadina e anche fuori di essa con un campo elettromagnetico che è molto più alto di quello che abbiamo adesso. Secondo il responsabile dell’ARPA che ha illustrato la situazione nella trasmissione Report di Raitre del 27/11/18, già solo nella fase iniziale il numero di antenne attuale dovrà triplicare, per cui in Italia si passerebbe dalle 60.000 odierne a 180.000 in un amen. Swisscom ha di recente chiesto al Parlamento svizzero l’innalzamento dei limiti di esposizione, perché altrimenti non riuscirà a far funzionare il 5G. Per il momento, il Parlamento svizzero lo ha negato, ma non sappiamo fino a quando. È probabile che anche in Italia gli operatori faranno pressioni in tal senso, magari tramite organismi solo all’apparenza indipendenti.
A questo proposito va sottolineato come “i due organismi internazionali che fissano le linee guida sull’esposizione per i lavoratori e per il pubblico generale – ovvero la Commissione internazionale per la Protezione dalle radiazioni non ionizzanti (ICNIRP) e l’Istituto di Ingegneri Elettrici ed Elettronici (IEEE) – sono, la prima, un’organizzazione privata (ONG) con sede in Germania che seleziona i propri membri e la sua fonte di finanziamento è non dichiarata; la seconda, invece, è la federazione di ingegneri più potente del mondo. I suoi membri sono (o sono stati) impiegati in aziende o organizzazioni che sono produttori o utenti di tecnologie che dipendono dalle radiazioni elettromagnetiche, come ad esempio le società elettriche, l’industria delle telecomunicazioni e le organizzazioni militari”.
L’ICNIRP è composta da tecnici, in pratica ingegneri e fisici, anziché da medici e biologi che sono coloro che si occupano della salute. Gli specialisti dell’ICNIRP prendono per buono un assunto di quarant’anni prima e, nei laboratori di ricerca, riempiono un manichino di plastica alto 2 metri – con un rivestimento inerte rispetto alle onde elettromagnetiche essendo costituito appunto di materiale plastico – con gel proteico (che dovrebbe essere, secondo loro, assimilabile al contenuto del tessuto vivente umano) e lo espongono a campi elettromagnetici, osservando a quali valori di soglia cominciano a verificarsi degli effetti termici, cioè legati al calore. L’irradiazione dei manichini con questi campi elettromagnetici, fatta separatamente ad alte e basse frequenze ha permesso loro di definire in acuto, e solo per gli effetti termici, dei limiti (61 V/m) ben più alti di quelli attualmente presenti in Italia per l’esposizione delle persone ai campi elettromagnetici, cioè dei 6 V/m per i campi ad alta frequenza (come quelli a varie radiofrequenze delle stazioni radio base o, nelle microonde, dei Wi-Fi).
In Italia la Fondazione Ugo Bordoni, la Fondazione Guglielmo Marconi, il Consorzio Elettra 2000 sono organismi che si distinguono da decenni per le loro posizioni riduzioniste e favorevoli a gestori e impianti; naturalmente il loro organigramma scientifico è composto da figure tecniche dalla specifica competenza e formazione ingegneristica e fisica.
Potreste dire “ok, e quindi?”, se non fosse che, a partire dal 1995, parallelamente con la crescita di antenne della telefonia mobile, si è assistito per vent’anni a una crescita quasi esponenziale del numero di persone diventate elettrosensibili da un giorno all’altro, e che in alcuni Paesi rappresentavano già nel 2005 il 10% della popolazione. Una percentuale significativa di costoro vive una “non vita”, tanto che alcuni arrivano perfino a suicidarsi. L’elettrosensibilità è un effetto a breve termine dei campi elettromagnetici, e come mostrato già venticinque anni fa in uno studio sperimentale americano (Rea, 1991), effettuato con una serie di stimolazioni con diverse frequenze ed in condizioni di doppio cieco su 100 pazienti che auto-denunciavano elettrosensibilità, “vi sono prove evidenti che la sensibilità al campo elettromagnetico esiste e può essere stimolata in condizioni controllate dall’ambiente”. Altri studi suggeriscono che le sostanze chimiche neurotossiche e le radiazioni elettromagnetiche possano aggravare gli effetti reciproci. Non stupisce, dunque, a questo punto, il fatto che una percentuale significativa delle persone con intolleranza elettromagnetica auto-diagnosticata manifestino intolleranza a bassi livelli di esposizione chimica, ovvero siano affetti dalla cosiddetta “Sensibilità Chimica Multipla” (MCS).
Vi sono poi tutta una serie di effetti sanitari a lungo termine – tumori al cervello, infertilità maschile, malattie neurodegenerative, etc. – di cui finora stiamo vedendo solo la “punta dell’iceberg”, proprio perché si manifestano dopo vari anni. I campi elettromagnetici artificiali sono in uso da quando si usa l’energia elettrica, quindi da circa un secolo, ma in maniera abnorme negli ultimi 30-40 anni, quando alle emissioni a bassa frequenza tipiche di elettrodotti e linee elettriche si sono aggiunte quelle ad alta frequenza tipiche della radio, della televisione, dei radar, degli impianti radio-ricetrasmittenti, delle stazioni radio base della telefonia mobile, dei telefoni cellulari e dei cordless, dei router e degli hotspot Wi-Fi, dei sistemi di comunicazione usati dalla domotica (Bluetooth, Z-Wave, ZigBee, etc.), per non parlare di tutta una serie di impieghi minori di cui quasi non ci accorgiamo più: dai baby monitor fino alle porte anti-taccheggio dei negozi.
I campi elettromagnetici a bassa frequenza prodotti dalle linee di trasmissione elettrica hanno un cambiamento di polarità di 50 volte al secondo, che induce pertanto delle correnti all’interno degli organismi che ne sono investiti. Tanto che l’Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro (IARC) nel 2001 ha classificato i campi magnetici a bassa frequenza come possibili cancerogeni per l’uomo. Nel frattempo, però, le ricerche svolte in laboratorio sugli animali hanno permesso di capire che i campi alla frequenza di rete (50 Hz) sono “co-promotori” del cancro, ovvero non lo provocano di per sé, ma in presenza di un agente carcinogeno ambientale ne favoriscono lo sviluppo, come suggerito da vari studi, non ultimo uno esemplare del 2016 eseguito dall’Istituto Ramazzini.
Le evidenze scientifiche dei danni prodotti dai campi elettromagnetici a radiofrequenza sono state invece ancora meglio determinate e ormai sono molto ben comprese. Qualche anno fa, nel 2011, lo IARC li classificò come “possibili cancerogeni” – invece che come “cancerogeni certi” – perché all’epoca non si avevano ancora gli studi su animali, che sono nel frattempo stati pubblicati. Ad esempio, sono stati fatti studi approfonditi dall’Istituto Ramazzini a Bologna e dal National Toxicology Program negli Stati Uniti che hanno colmato la lacuna di conoscenza che c’era nel 2011, e che potrebbero permettere presto di stabilire ufficialmente che le radiofrequenze sono dei cancerogeni certi per l’uomo, e dunque la cui esposizione è da evitare ai cittadini.
Secondo un recentissimo studio pubblicato online nel 2018 dalla rivista peer-reviewed Journal of Environmental and Public Health, in Inghilterra nel periodo 1995-2015 è stato riscontrato un aumento sostenuto e molto significativo nell’incidenza del Glioblastoma Multiforme – il tumore cerebrale più aggressivo e rapidamente fatale – nel corso dei 20 anni esaminati e in tutte le fasce d’età, mentre i tassi per i tumori di gravità inferiore sono diminuiti, mascherando questa drammatica tendenza nei dati complessivi. E risultati simili si sono riscontrati anche in Svezia, con molti tumori cerebrali di tipo nuovo diagnosticati già nella fascia di età fra i 20 ed i 40 anni. E questo solo per citare due Paesi per i quali si hanno a disposizione studi con i dati più recenti, che forniscono quindi meglio il quadro reale della situazione e del trend in atto.
I tumori cerebrali sono a crescita lenta e possono richiedere decenni per svilupparsi dopo l’esposizione tossica. I tassi di cancro ai polmoni non aumentarono nella popolazione generale fino a più di tre decenni dopo che gli uomini americani avevano cominciato a fumare molto. Pertanto non deve stupire che non si sia ancora verificato un “boom” di casi nella popolazione generale: semplicemente non c’è stato ancora abbastanza tempo, come ammettono off-records gli esperti, e come la recente ricerca del Ramazzini sembra confermare al di là di ogni ragionevole dubbio. Negli Stati Uniti, i tumori del cervello e del sistema nervoso centrale rappresentano però già il tipo di cancro più comune nella fascia di età 15-19 anni, come mostrato da una dettagliatissima analisi pubblicata nel 2015. La soluzione è quella di usare tutto via cavo, compresi i telefoni. Il cellulare va considerato come una preziosa “radio di emergenza”, che serve quando siamo in pericolo per qualche motivo, ma non va usato per sostituire la conversazione via filo, mentre oggi l’andamento è esattamente l’opposto. Però, i rischi di tumore cerebrale sono 4 volte maggiori in chi usa i cellulari e tale legame è ben dimostrato. Non stupisce, quindi, che un neurochirurgo dell’Università di Roma abbia dichiarato, poco tempo fa, che nel loro Istituto una volta operavano un tumore cerebrale al mese, o ogni 20 giorni, mentre adesso operano tutti i giorni.
Noi in Italia abbiamo un limite di esposizione della popolazione alle radiofrequenze (di emittenti radio-televisive, torri della telefonia mobile, ponti radio, vari apparati di telecomunicazione fissi, etc.) fra 6 e 20 V/m, ma – come rivelato dal biologo Fiorenzo Marinelli – l’ICNIRP sta chiedendo di portare questo limite di esposizione a 61 V/m. Tutto ciò, naturalmente, è da confrontarsi anche con il fondo naturale pulsato al quale l’uomo ed i suoi apparati biologici sono evolutivamente abituati (fino al 1940 circa), che è di 0,0002 V/m, mentre dal 2007 c’è stata una impennata della densità di potenza delle radiazioni nell’ambiente urbano, che corrisponde all’aver cambiato profondamente l’ambiente.
I limiti di legge attuali sono stati fatti pensando ai soli effetti termici e dicendo che non esistono effetti al di sotto della soglia termica di 61 V/m stabilita dall’ICNIRP, che provoca un forte riscaldamento. In Italia, grazie al professor Livio Giuliani – un esperto di livello internazionale degli effetti dei campi elettromagnetici e già dirigente di ricerca dell’Unità Radiazioni dell’Ispesl – quando si discussero i limiti di legge da attuare, si riuscì a far approvare un criterio di precauzione fissando la soglia a 6 V/m per gli ambienti con permanenze delle persone superiori alle 4 ore, quali ad esempio abitazioni, scuole, etc. Tuttavia, grazie agli studi degli ultimi anni, sappiamo che questi 6 V/m attuali non sono sufficientemente cautelativi e andrebbero ulteriormente ridotti.
Come spiega il già citato Marinelli, un ricercatore che ha lavorato quasi una vita all’Istituto di Genetica Molecolare del CNR di Bologna, occupandosi degli effetti biologici dei campi elettromagnetici, “il paradosso più grave è che questa legge (che fu il decreto n.381 del 1998) escludeva dal suddetto limite di esposizione gli apparati mobili, cioè i telefoni cellulari, che successivamente furono classificati attraverso un sistema molto complicato che è quello del SAR, fissato per l’Europa in 2 W/kg, e che viene autocertificato dalle case che producono i telefoni cellulari. Per ottenere dentro il manichino usato per stabilire il SAR i 2 W/kg, bisogna emettere da fuori un campo di 307 V/m. Quindi, dire che un telefono cellulare rispetta la normativa di 2 W/kg, è come dargli una licenza d’uso a 307 V/m. Perciò, è un’assoluta assurdità!”.
“L’OMS e l’ICNIRP”, spiega Marinelli “dicono: limite di legge 61 V/m. Il limite in Italia – che è uno dei valori più bassi a livello internazionale – è di 6 V/m. Ma gli studi indipendenti dicono che bisognerebbe scendere almeno a 0,6 V/m o a 0,2 V/m. Tuttavia il problema principale sono i telefoni cellulari, che sfuggono a questa limitazione. Inoltre, i limiti di legge sono stati “costruiti” per gli effetti termici immediati, mentre invece irradiare una persona con 2 V/m praticamente per tutta la vita causa, molto probabilmente, un danno ben maggiore di quello causato dalla esposizione occasionale ai 6 V/m stabiliti dalla legge”.
Inoltre, come spiega Giuliani, “diversamente da quello che l’uomo della strada pensa, gli effetti delle radiofrequenze non dipendono solo dall’intensità delle emissioni, ma anche dalle loro forme d’onda, frequenza e fase”.
Non dobbiamo dimenticare poi che, nel 2011, la risoluzione n.1815 del Parlamento Europeo dà un’indicazione precisa, e dice “bisogna diminuire al massimo l’esposizione dei cittadini, perché ci sono delle evidenze di possibile danno”. Non solo, ma con le conoscenze attuali non dobbiamo più parlare di principio di precauzione – come si faceva alcuni anni fa quando non si sapevano moltissime cose relativamente agli effetti biologici e sanitari delle onde elettromagnetiche ad alta frequenza ed a bassa frequenza – bensì dobbiamo parlare di principio di prevenzione, perché oggi sappiamo che le onde elettromagnetiche sono dannose.
L’ultimo aspetto che va sottolineato è il conflitto di interessi potenziale che può influenzare pesantemente la conoscenza scientifica in questo delicatissimo settore. Se gli studi scientifici non sono finanziati dall’industria, trovano effetti dei campi elettromagnetici a radiofrequenza per il 70% e non li trovano per il 30%. Viceversa, se gli studi sono finanziati dall’industria, trovano effetti solo per il 32% e non li trovano per il 68%. Questa è l’esplicitazione numerica del paventato conflitto di interessi, cioè l’industria sembra favorire/finanziare pubblicazioni scientifiche che servano a “bilanciare” quelle ottenute da scienziati indipendenti o operanti nel settore pubblico.
Purtroppo, come osservato dal prof. Angelo Gino Levis, a cui si deve la storica sentenza del tribunale di Ivrea sulla relazione fra neurinoma e uso del cellulare 3,4, “oggi una gran parte della scienza subisce un processo di “secolarizzazione”, cioè di immobilità. Certe posizioni ufficiali sono ferme da 60 anni, nonostante le conoscenze scientifiche sull’argomento siano enormemente progredite. Inoltre, quando si ha a che fare con un problema nel quale sono coinvolti interessi planetari – e oggi quelli delle tecnologie che comportano la produzione e l’utilizzo di campi elettromagnetici, come la generazione di elettricità e la telefonia mobile, superano quelli che in passato ha avuto l’industria automobilistica – i conflitti di interesse possono influenzare in maniera determinante le conoscenze scientifiche, la normale dialettica fra i ricercatori e, in ultima analisi, l’informazione che arriva al grande pubblico”.
Molti cittadini pensano che alcune Istituzioni pubbliche possano, nonostante tutto, proteggere il cittadino, ma potrebbe non essere proprio così. Infatti, la voglia di deregolamentare il settore con una varietà di norme e di interpretazioni sempre più “larghe” delle stesse è stata ed è, in questo settore, più forte di quella di stabilire dei limiti di legge cautelativi e di farli in qualche modo rispettare. Inoltre, le leggi nazionali che regolano l’installazione delle nuove antenne sono state via via semplificate a favore degli operatori di telefonia. Le nuove normative sulle misurazioni, poi, sono tali che le ARPA non riescono a fare rilievi di routine con valore legale. Ed i Comuni non hanno più in mano strumenti legislativi efficaci per poter imporre qualcosa agli operatori. E quando l’ultimo baluardo rimasto è costituito – come in questo caso – solo da giornalisti e scienziati, allora situazione appare critica e preoccupante.
ARPA che, non dobbiamo mai dimenticarlo, hanno il compito di vigilare sul rispetto di limiti e valori e soglie di emissioni e inquinanti fissate dal legislatore e alle quali non spetta alcuna valutazione sanitaria non avendone titolo né competenza.
Ma già subito dopo l’approvazione della legge quadro in materia di esposizione ai campi elettromagnetici, è iniziato un percorso di progressivo allontanamento da parte istituzionale rispetto a posizioni di protezione e cautela, a discapito della tutela della salute. La parabola discendente corrisponde ad esempio – in qualche modo – ad un progressivo allontanamento di Livio Giuliani, di certo non voluto da lui, dalla possibilità di intervenire direttamente con le prerogative che la legge comunque gli attribuiva come dirigente dell’Ispesl (Istituto Superiore per la Prevenzione e la Sicurezza sul Lavoro), l’organo che aveva espresso l’atteggiamento più cautelativo nei confronti dei campi elettromagnetici. E infatti l’Ispesl è stato eliminato, o meglio accorpato nell’Inail, rendendolo di fatto “innocuo”.
Come osservato in un Convegno “Stop 5G” dalla dr.ssa Fiorella Belpoggi, biologa e dirigente dell’Area ricerca del prestigioso Istituto Ramazzini di Bologna, “l’industria chimica e quella delle automobili non possono mettere sul mercato un prodotto senza aver prima fatto degli studi sulla possibile presenza di effetti sulla salute; alla telefonia mobile ciò non è mai stato chiesto. Anche tale industria, invece, dovrebbe essere obbligata a seguire un certo percorso, altrimenti sostenibilità e salute – parole di cui ci siamo riempiti la bocca in questi anni – vanno a farsi friggere”. Il problema, inoltre, è che in Italia, per guadagnare dalle licenze sulla concessione delle frequenze radio-televisive, lo Stato ha reso gli operatori e gestori di telefonia mobile, di fatto, dei concessionari privati di un servizio. Ed abbiamo visto con il “caso Autostrade” cosa ciò comporti nel caso si verifichi un “imprevisto” e si renda opportuna una revoca.
Potrebbe essere utile pensare a un parallelo col fumo, e non solo per il lungo periodo di latenza fra esposizione e sviluppo del cancro. Tutti abbiamo visto delle radiografie con i danni che esso provoca ai polmoni. Ebbene, vari studi recenti hanno costantemente riportato un aumento della permeabilità della barriera emato-encefalica e un deterioramento cognitivo dopo l’esposizione a campi elettromagnetici a radiofrequenza, confermando i risultati pionieristici di Leif Salford e colleghi, che per primi dimostrarono come l’esposizione dei ratti alle radiazioni dei telefoni cellulari causi nel giro di sole 2 ore dei “buchi” in questa fondamentale barriera fra i vasi sanguigni ed il resto del cervello. Ciò permette l’accesso a sostanze chimiche tossiche nel cervello, e può in parte spiegare perché molte persone elettrosensibili siano affette anche dalla cosiddetta “Sensibilità Chimica Multipla” (MCS).
Infine è assai importante conoscere il livello di elettrosmog nel proprio ambiente di vita (casa e ufficio), e soprattutto l’intensità del campo prodotto dal proprio smartphone, considerando che con il traffico dati attivo molti apparecchi emettono valori elevati di radiazioni h24, se non spenti.
Ma cosa dobbiamo aspettarci dal 5G? Quella che è la tecnologia attuale 3G e 4G, basata su radiofrequenze che vanno dalle centinaia di mega-hertz fino a pochi gigahertz, si trasferirà in parte in quella che è un’altra finestra dello spettro elettromagnetico, ovvero quella delle onde centimetriche (in Italia, una delle tre bande “pioniere” che sono state messe all’asta per il 5G è a 26 GHz) e si parla anche di onde millimetriche. Quindi, la frequenza delle onde coinvolte nella nuova tecnologia del 5G aumenterà, che è proprio l’opposto di ciò che i ricercatori dell’Istituto Ramazzini si auspicano sulla base dei loro studi.
Maurizio Martucci giornalista d’inchiesta che da anni si occupa di elettrosmog, sottolinea la responsabilità della politica nel non occuparsi di tale argomento: “Se la politica, il Governo, il Parlamento sono completamente nelle mani dei desiderata di chi sta sviluppando questa tecnologia – che non ha nessuno studio preliminare su quelli che potranno essere gli effetti sanitari sulla popolazione civile – e non hanno una presa di coscienza seria e sensata su questo problema, che è molto importante considerato che già dall’inizio del 2019 una delle bande di frequenze che sono state messe all’asta dal Governo sarà operativa, ci troveremo in realtà ad essere tutti delle cavie”.
Di solito, chi oggi scrive di questi temi, ha sostenuto Martucci, “porta le cosiddette “veline di regime”, perché è inutile vendere fumo, occorre dire la verità; e cioè che non c’è uno studio preliminare che attesti l’innocuità socio-sanitaria del 5G; e che al mondo esistono ben più di 1.000 studi validati dalla comunità medico-scientifica che attestano effetti biologici delle onde elettromagnetiche a radiofrequenza. La buona notizia che vi posso invece dare”, dice ancora “è che qualcosa, o almeno la nostra parte, possiamo farla anche noi: grazie alle rimostranze dei cittadini, alle petizioni dei comitati spontanei e alle diffide legali degli avvocati, negli Stati Uniti i sindaci di 4 città – le prime 4 “mosche bianche” – hanno detto “noi non vogliamo il 5G” e altri 300 sindaci, riuniti in America in un’associazione di primi cittadini, hanno chiesto al Governo americano di bloccare il 5G. E negli Stati Uniti in ogni Stato c’è una battaglia ferocissima sull’argomento, che io seguo praticamente tutti i giorni. Dunque, la cittadinanza ha sempre una chance da potersi giocare, mai come in questo caso importante, trattandosi di salute pubblica”.
Ecco, seguo da più di vent’anni le vicende legate ai rischi che derivano dal proliferare di sorgenti di campi elettromagnetici, prima in Legambiente poi nel direttivo nazionale del CoNaCem che tanto ha contribuito, a cavallo degli anni 2000, all’adozione delle tutele legislative oggi in vigore. E da molti anni conosco personalmente e seguo le attività di ricercatori, medici e scienziati controcorrente, fuori dal coro (e dai convenzionali flussi di denaro); dal compianto prof. Maltoni al dott. Soffritti, dalla dott.ssa Belpoggi fino al dott. Mandrioli dell’Istituto Ramazzini di Bentivoglio; ma anche i sopracitati Fiorenzo Marinelli e Livio Giuliani.
Concludo osservando proprio come i cittadini abbiano sempre una chance da potersi giocare quando è la salute pubblica e di tutti in discussione. E le chance aumentano quando c’è conoscenza, consapevolezza, condivisione di informazioni e di intenti nella comunità e in chi li rappresenta, e non ultima la responsabilità e la coerenza dei comportamenti individuali. Certamente importante il dialogo e il confronto nel quale però deve prevalere l’interesse collettivo della salute rispetto a quello del profitto, come la nostra stessa Carta Costituzionale sancisce anteponendo il diritto alla salute (art.32) a quello dell’iniziativa economica privata che non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana (art.41); e di fronte alla materiale ottusità e alla viscida condiscendenza anche le barricate possono diventare extrema ratio.
Roberto Feletto