Venerdì: Dal treno in partenza veder scomparire l’insegna di Sacile

Di tutti i “pensierini” fin qui riportati, questo è quello che meglio descrive circostanze particolarmente interessanti e personalmente vissute. Ma sono oltretutto sicuro che altre centinaia, per non dire migliaia di giovani o più adulti emigranti, chi più chi meno, hanno condiviso la stessa esperienza. Pertanto i destinatari e coloro che hanno l’occasione di leggere queste “note”, mi devono scusare per il mio ardire nel raccontare di stati d’animo e fatti vissuti personalmente molto tempo fa, ma vi assicuro che questa è un’ottima occasione per dimostrare di che cosa l’emigrazione è anche fatta.
In sostanza essa è articolata in due gruppi di sentimenti che nel più dei casi si scontrano fra loro.
Il primo che tutti conosciamo è quello della volontà di migliorare le proprie condizioni, del coraggio, dello spirito di responsabilità per cui si decide di “partire”.
Il secondo invece, il meno con
osciuto (perché l’orgoglio frena di parlarne apertamente), è quello fatto di sentimenti come: la nostalgia di tutto ciò che lasci, la paura di non farcela, di incertezze ecc.
Fattori che più di ogni altra cosa marcano la vita di chi lascia il proprio paese.
La prima volta che vidi la scritta “Sacile” alla stazione ferroviaria della cittadina, è stato l’anno successivo la scomparsa del povero papà, avevo tredici anni e (per cambiar aria durante le vacanze estive), avevo preso da solo la famosa “Littorina” per andare a Fanna ospite da una zia. Poi ho continuato a vederla ogni giorno durante il tragitto che per tre anni facevo in bicicletta per raggiungere l’Istituto Professionale di Sacile, ma fino qui tutto normale, era una comune indicazione di località.
Tutto cambia invece alla prima partenza per la Svizzera.
Quel viaggio voleva dire lasciar tutto quello che possiedi e conosci per l’incognito. A cavallo degli anni cinquanta – sessanta il boom economico era già iniziato, ma ugualmente si continuava a emigrare per il semplice fatto che “era consuetudine farlo”.
Una gioventù molto intensa: la scuola, la famiglia che ti ama e che ami, il lavoro che piace e che prospettava un ottimo futuro, frequentare le funzioni religiose, il posto di mediano sinistro nella squadra di calcio, il gioco del calcetto che andava alla grande, il sano divertimento fra amici, la ragazza, eh sì anche la ragazza.
Tutto questo si rifletteva su quella scritta che tutto ad un tratto appariva come l’espressione più genuina di tutto ciò che stai per abbandonare, ma che dal finestrino del treno irreparabilmente vedevi sparire all’orizzonte. Inaspettatamente un nodo prende la gola, la testa gira e la vista si ann
ebbia, all’improvviso capisci che la gioventù non c’è più, è rimasta là, attaccata, abbandonata a quella insegna di stazione.
Stazione come punto di arrivo, ma purtroppo prima ancora: come punto di partenza.
Il distacco troncava tutto, e un’ altra vita, che solo sapevi sarebbe stata “più dura sotto tutti i punti di vista”, stava per iniziare. A quei tempi partire voleva dire “chiudere con il passato”, l’era dell’internet e del consumismo fatto di voli low-cost, autostrade, telefonini, sms, e-mail, o treni ad alta velocità era ancora molto lontana, si partiva pensando solo di guadagnare, risparmiare e spedire soldi a casa; sperando, ma con la sola consapevolezza che il ritorno (se c’era un ritorno), sarebbe venuto solo dopo diversi mesi o anni e con l’illusione, ma falsa, che il mondo che stavi lasciando rimanesse uguale.
Momenti molto difficili da sopportare e per certi versi anche inaspettati.
Anche per questo chi è partito merita più rispetto.

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